Diritto (o servitù) di veduta e di panorama
Parafrasando l’art. 907 c.c., possiamo definire la servitù di veduta come il diritto del proprietario di un fondo di affacciarsi e godere della vista o, in caso vi siano edifici confinanti, il diritto di affacciarsi sul fondo del vicino senza incontrare ostacoli prima di una certa distanza.
La domanda di fondo è se possa esistere, come varietà o ampliamento dell’appena ricordato diritto di veduta, un diritto non limitato al semplice prospicere sul fondo finitimo, ma a guardare verso l’infinito per godere, appunto, del panorama.
Pur non essendo ciò previsto dal codice civile, la giurisprudenza ha avuto modo in più occasioni di riconoscere l’esistenza di una servitù di panorama, la cui utilità è data dal poter godere della particolare amenità del paesaggio e dalla particolare visuale.
E’ una servitù negativa, che conferisce al titolare il potere di vietare al proprietario del fondo servente di innalzare costruzioni o far crescere piante che possano pregiudicare o limitare tale visuale.
Riconosciuta l’esistenza ed i limiti di tale servitù, l’argomento fondamentale da affrontare è quindi “come” essa si costituisca.
Trattandosi, come detto, di creazione giurisprudenziale, occorre fare riferimento alle sentenze che l’hanno prevista.
Le servitù negative si sostanziano nel potere di “vietare” riconosciuto al proprietario del fondo dominante e non necessitano quindi di opere visibili destinate al loro esercizio (Cass. 25 marzo 1995, n. 3556 e n. 3370; Cass. 13 febbraio 1995, n. 1563; Cass. 9 febbraio 1995, n. 1456; Cass. 3 maggio 1993, n. 5126) e sono servitù non apparenti, come è stato sempre ritenuto dalla giurisprudenza prevalente (Cass. 2458/1972; Cass. 1764/1972; Cass. 119/1974; Cass. 8744/1993).
Trattandosi di servitù negativa “non apparente”, non può essere acquisita per usucapione (Cass. Civ., Sez II, 14 Aprile 2000, n. 4816 secondo la quale “Le servitù negative – quale la “servitus non aedificandi” – sono sempre non apparenti e non possono pertanto formare oggetto di acquisto per usucapione”).
Secondo la giurisprudenza prevalente quindi, la “servitù di paesaggio” non può essere costituita a titolo originario tramite usucapione o destinazione del padre di famiglia, ma solo tramite atti di autonomia privata, contratto o testamento, soggetti all’obbligo di forma scritta ad substantiam e trascrizione nei registri immobiliari ai fini dell’opponibilità ad eventuali terzi acquirenti del fondo servente.
In due sentenze (Cass. 10.250/1997 e 2973/2012) la Corte di Cassazione, con una pronuncia non del tutto in linea in linea con il proprio orientamento più rigido sostiene che, in presenza di opere visibili e permanenti, ulteriori rispetto a quelle che consentono la veduta, anche la servitù di panorama possa essere acquisita per usucapione e destinazione del padre di famiglia.
La Corte ha infatti affermato che: “il riconoscimento in capo al proprietario di un immobile del diritto di veduta dal proprio terrazzo, in ragione della preesistenza della visuale all’acquisto dell’immobile, viola il principio della tipicità dei modi di acquisto dei diritti reali, giacché è vero che una servitù altius non tollendi (ovvero una servitù negativa e non apparente) può essere costituita oltre che negozialmente anche per destinazione del padre di famiglia od usucapione, ma tali modi di costituzione necessitano, non solo, a seconda dei casi, della destinazione conferita dall’originario unico proprietario o dell’esercizio ultraventennale di attività corrispondenti alla servitù, ma anche di opere visibili e permanenti, ulteriori rispetto a quelle che consentono la veduta”.
In estrema sintesi si può quindi affermare che per poter avere una servitù di panorama è necessario che tale limitazione per il proprietario del fondo servente sia prevista in un atto pubblico (contratto, etc.) oppure siano trascorsi 20 anni (termine per l’usucapione) da quando sono state realizzate opere “permanenti ulteriori rispetto a quelle necessarie per la veduta” e che venga fatta valere mediante idonea azione giudiziaria.
Nonostante lunga ricerca, non si rinvengono precedenti giurisprudenziali dai quali poter indicare con certezza quali siano le opere “ulteriori rispetto a quelle necessarie per la veduta” che permettano il maturare dell’usucapione.
Si può supporre, che non sia sufficiente una finestra od una luce ma che, ad esempio, possa esserlo un terrazzo costruito appositamente per avere vista diretta sul panorama (es. terrazzo vista mare sul tetto ? un osservatorio ?).
SULLA CONFORMITA’ URBANISTICA E LA RISARCIBILITA’ DEL DANNO
Qualora il fabbricato sia edificato in violazione delle norme che disciplinano l’assetto territoriale (in proposito Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 27/01/2015 n° 362), la diminuzione o esclusione del panorama subita da un immobile tutelato dalle norme urbanistiche (art. 872 c.c. – “violazione delle norme di edilizia”) è configurabile quale danno ingiusto e, di conseguenza, risarcibile.
La prova del danno è da fornire tramite consulenza tecnica, in quanto consistente in un accertamento di fatti rilevabili e valutabili criticamente solo con l’ausilio di specifiche cognizioni tecniche (Cass. 15 dicembre 1994, n. 10775; Cass. 30 marzo 1990, n. 2629; Cass. 25 agosto 1992, 9859).
In un’articolata sentenza (Cass. 3679/1996) la Suprema Corte ricostruisce il rapporto tra risarcibilità del danno e mancanza di conformità giungendo ad affermare che nell’ipotesi di edificazione non in conformità dei regolamenti edilizi (quindi con abuso, seppur poi sanato) colui che venga privato del panorama avrà diritto ad essere risarcito, in misura da determinarsi caso per caso.
Viceversa, qualora l’edificazione sia stata compiuta in conformità agli strumenti urbanistici (regolamenti edilizi) e civili (servitù, distanze) la semplice privazione del panorama non costituisce attività illecita fonte di danno ingiusto e quindi obbligo risarcitorio.
Così Cass. civ. Sez. II, 18-04-1996, n. 3679 (QUI il testo integrale):
La realizzazione di una costruzione abusiva in violazione delle norme del regolamento edilizio non integrative del codice civile, da cui derivi la perdita o la diminuzione del panorama goduto da un appartamento vicino, costituisce un comportamento illecito da cui sorge l’obbligo di risarcire il danno nella misura del deprezzamento del valore commerciale dell’immobile. La prova del danno relativo alla perdita o alla diminuzione del panorama goduto da un appartamento dipende dall’accertamento di fatti che possono essere rilevati e valutati esclusivamente con l’ausilio della consulenza tecnica.
CONCLUSIONI
La suprema Corte riconosce l’esistenza di una servitù di panorama, intesa come diritto alla “bella veduta” che si può godere dal proprio fondo impedendo a terzi di frapporre ostacoli sopraelevando costruzioni o facendo crescere piante.
Tale diritto, per poter essere riconosciuto, deve essere costituito con convenzione trascritta nei registri immobiliari e come tale conoscibile a terzi.
Tipico è l’esempio di chi, proprietario di un immobile, venda il terreno antistante a terzi con il vincolo (contrattuale e quindi trascritto nei registri immobiliari) di non costruirvi edifici o strutture oltre una certa altezza, per non vedersi privato del proprio panorama.
In assenza di detta previsione scritta (come nel nostro caso), si dovrebbe fare ricorso all’eventuale acquisto per usucapione del “diritto al panorama”, potendo dimostrare che da oltre vent’anni esistono nel nostro immobile strutture “permanenti ulteriori rispetto a quelle necessarie per la veduta” tali da far godere in modo inequivoco del panorama, e che in tale periodo la servitù è stata esercitata.
In assenza di giurisprudenza specifica sul punto, la ricorrenza di tali caratteristiche non è oggettivamente di facile indicazione poiché si sostanzia in una valutazione personale che come tale potrà essere decisa solo da un giudice dopo adeguata consulenza tecnica.
RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA SULLA SERVITU’ DI PANORAMA
Altro aspetto importante è l’influenza che hanno le norme che disciplinano l’organizzazione urbanistica del territorio.
Se l’immobile è sopraelevato nel rispetto delle disposizioni amministrative e civilistiche, la costruzione è legittima, pur avendo comportato una diminuzione del prezzo dell’immobile che si vede privato del panorama; al contrario, se si costruisce in violazione delle predette norme (o presumibilmente anche delle sole norme amministrative), ricorre la fattispecie di danno ingiusto ed il danneggiato è legittimato a chiedere il risarcimento o addirittura la riduzione in pristino.
Un’ultima osservazione in merito alle distanze tra gli immobili.
Sia nella giurisprudenza di merito che in quella della Cassazione, abbiamo sempre individuato casi di immobili “finitimi” o comunque “vicini”.
Tale aspetto potrebbe avere una particolare rilevanza qualora, come spesso accade, gli immobili fossero costruiti ben oltre le normali distanze legali previste dal codice civile e quindi a distanza tale da non “privare” della vista ma solo di “limitarla”, che è concetto differente e non rinvenuto nella giurisprudenza citata.